IL TRIBUNALE

    Nella causa n. 792/04 r.g.a.c., introdotta da Innocenti Francesco
nei  confronti  della Curatela del Fallimento Innocenti Francesco, ha
pronunciato la seguente ordinanza;
    E'  rilevante  e  non  manifestamente  infondata  la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 51, primo comma, n. 4, c.p.c.
nella parte in cui non prevede, nella causa di opposizione ex art. 18
r.d.  n. 267  del  1942,  l'obbligo  di astensione per il giudice che
abbia fatto parte del collegio che ha emesso la sentenza opposta.
    1. - Esposizione dei fatti.
    Il  Tribunale  di Grosseto, con sentenza n. 14/04 del 26 febbraio
2004,  pronunciava  il fallimento di Innocenti Francesco, quale socio
illimitatamente  responsabile  della  Sergio Innocenti & C. s.a.s., e
questo giudice partecipava alla composizione del collegio.
    Lo  stesso  socio  fallito,  con  atto  di  citazione ritualmente
notificato,  proponeva opposizione avverso la pronuncia di fallimento
ai sensi dell'art. 18 l.f.
    Il  presidente con provvedimento del 14 giugno 2004, designava il
sottoscritto quale giudice istruttore, sebbene lo stesso avesse fatto
parte  del  collegio  che  aveva  emesso  la  pronuncia  opposta, sul
presupposto   che   non   fosse   ravvisabile   una   situazione   di
incompatibilita'  tale  da  giustificare  l'astensione,  in quanto la
sentenza  dichiarativa  di  fallimento  viene emessa al termine di un
giudizio  a  cognizione  sommaria, mentre quella di opposizione viene
emessa  all'esito  di  un giudizio a cognizione piena, cosi' aderendo
all'orientamento  univoco  della Corte di cassazione (in particolare,
nella  motivazione  del  provvedimento presidenziale si richiamava la
sent.  n. 12410  del 2000 della Suprema Corte, emessa successivamente
alla sentenza n. 387 de1 1999 della Corte costituzionale).
    2. - Rilevanza e legittimazione.
    La  questione  in  esame e' rilevante in quanto questo giudice ha
fatto  parte  del  collegio che ha emesso la sentenza opposta per cui
l'evenutale  accoglimento  dell'eccezione  di  incostituzionalita' ne
determinerebbe  l'obbligo  di astensione ai sensi dell'art. 51, comma
primo, n. 4 c.p.c.
    Sotto  il  profilo della leittimazione, inoltre, va rilevato come
la  norma  sull'astensione  obbligatoria  debba  essere applicata dal
giudice tenuto all'astensione e non gia' dal capo dell'ufficio, posto
che  nelle  ipotesi  di astensione obbligatoria (come quella prevista
dall'art. 51,  primo  comma,  n. 4,  c.p.c.) il capo dell'ufficio non
deve  autorizzarla  ma limitarsi a prendere atto dell'astensione ed a
provvedere   alla   sostituzione   del   giudice   astenutosi  (Cass.
n. 1093/1981), dal che si deduce che in questi casi, a differenza che
nelle  ipotesi  di  astensione  facoltativa,  i  poteri decisori sono
esercitari  dal  giudice  tenuto  all'astensione  e non gia' dal capo
dell'ufficio.
    3. - Non manifesta infondatezza.
    La  norma  di  cui all'art. 51, comma primo, n. 4 c.p.c., secondo
l'intepretazione consolidata in termini di diritto vivente, viola gli
artt. 24  e  111  della  Costituzione per la lesione del diritto alla
tutela   giurisdizionale,   sotto  il  profilo  di  esclusione  della
terzieta' e della imparzialita' del giudice.
    La  Corte  costituzionale  ha  gia' avuto modo di affermare che -
sebbene  nel  processo  civile  non siano applicabili le regole delle
incompatibilita' soggettive per precedente attivita' tipizzata svolta
nello   stesso   procedimento   penale,   in   considerazione   della
particolarita'  e  delle  diversita'  dei  sistemi  processuali  - il
principio  di  imparzialita-terzieta'  della  giurisdizione  ha pieno
valore  costituzionale  con  riferimento a qualunque tipo di processo
(v. sentenze n. 387 del 1998; n. 51 del 1998; n. 326 del 1997).
    In  particolare,  la  stessa  Corte  ha osservato che «l'esigenza
imprenscindibile,  rispetto  ad ogni tipo di processo, e' solo quella
di  evitare che lo stesso giudice, nel decidere, abbia a ripercorrere
l'identico   itinerario   logico  precedentemente  seguito;  sicche',
condizione   necessaria   per   dover   ritenere  un'incompatibilita'
endoprocessuale  e'  la  preesistenza di valutazioni che cadano sulla
stessa res iudicanda (sent. n. 387 del 1998).
    Ora,     poiche'     nel     processo    civile    la    garanzia
dell'imparzialita-terzieta'  del  giudice  e' rimessa, per scelta del
legislatore,  all'applicazione degli istituti dell'astensione e della
ricusazione,  non puo' non rilevarsi come la ratio della disposizione
contenuta  nell'art. 51,  comma  primo,  n. 4,  c.p.c.  sia quella di
evitare  che  l'itinerario  logico  che  e'  stato  gia'  seguito per
l'emanazione  del provvedimento impugnato sia ripercorso dallo stesso
magistrato  in  sede  di  gravame,  perche'  cio'  attenterebbe  alla
garanzia dell'alterita' del giudice ad quem.
    Tale   esigenza   e'   certamente  ravvisabile  nel  giudizio  di
opposizone  avverso la sentenza dichiarativa di fallimento, in quanto
tale  pronuncia  e'  suscettibile  di  assumere,  in  caso di mancata
opposizione,  il  valore  definitivo  con effetti di giudicato tra le
parti. In altri termini, sebbene la dichiarazione di fallimento venga
emessa al termine di un giudizio a cognizione sommaria, mentre quella
relativa  al  giudizio  di  opposizione  all'esito  di  un giudizio a
cognizione  piena, e' comunque ravvisabile l'esigenza di garantire la
terzieta'  del giudice dell'opposizone, posto che cio' che rileva, ai
fini  della  ravvisabilita'  dell'esigenza di garanzia de qua, non e'
tanto  la natura piena o sommaria della cognizione quanto la funzione
decisoria  (e  non  gia'  meramente  strumentale  e  provvisoria) che
caratterizza la sentenza oggetto di gravame.
    A   tal   proposito,   si   deve   rilevare  come  la  principale
argomentazione  con  cui  la  dottrina e la giurisprudenza prevalenti
escludono  per  il  giudice dell'esecuzione l'obbligo di astenersi ex
art. 51,  comma  primo,  n. 4 c.p.c. dal giudizio di opposizione agli
atti esecutivi avente per oggetto l'ordinanza dallo stesso emesso sia
proprio   l'assenza   di   poteri   decisori   in   capo  al  giudice
dell'esecuzione,  in  quanto  questi  e'  considerato  come  titolare
soltanto  di  poteri  ordinatori  finalizzati  alla  direzione  ed al
controllo del procedimento esecutivo. Ma cio' rappresenta la conferma
indiretta  che  i  presupposti  necessari del motivo di astensione in
esame  sono  rappresentati  dalla  titolarita'  e  dall'esercizio dei
poteri  decisori,  poteri  questi  appartenenti all'organo che decide
sull'istanza di fallimento per le ragioni sopra indicate.
    4.  - Impossibilita' di una interpretazione adeguatrice - diritto
vivente.
    Tuttavia,  nonostante  la  ravvisabilita' dell'esigenza suddetta,
secondo   l'orientamento  della  giurisprudenza  di  legittimita'  il
magistrato membro del collegio del tribunale che abbia provveduto con
sentenza sull'istanza di fallimento di un determinato debitore non e'
tenuto ad astenersi, ai sensi dell'art. 51, comma primo, n. 4 c.p.c.,
dal  partecipare  al  giudizio  di  opposizione  avverso la pronuncia
impugnata  (Cass.  20  febbraio  1978,  n. 801;  Cass. 2 aprile 1998,
n. 10527; Cass. 19 settembre 2000, n. 12410).
    Si  tratta di una interpretazione connotata in termini di diritto
vivente   in  quanto  e'  ravvisabile  l'indirizzo  giurisprudenziale
consolidato  (Corte  cost.  sentenze nn. 37 e 189 del 1994), costante
nel  tempo  (Corte  Cost. sentenze n. 398 del 1994) ed univoco (Corte
cost. ord. n. 326 del 1994).
    Ai    fini    della    valutazione    della    possibilita'    di
un'interpretazione   adeguatrice   non   sfugge   l'importanza  delle
argomentazioni  offerte  dalla  sentenza  n. 387 del 1999 della Corte
Costituzionale,  ma si tratta di motivazioni che non possono condurre
al perseguimento del risultato ermeneutico che qui interessa.
    In  primo  luogo,  si  deve  rilevare come la Suprema Corte, alla
quale  e' riconosciuto il ruolo di giudice della nomofilachia, si sia
pronunciata  successivamente  alla  sentenza  n. 387/1999 della Corte
delle   leggi,   ribadendo   il   proprio   pensiero   circa  la  non
configurabilita'    neppure   in   astratto   della   situazione   di
incompatibilita'  tra  giudice  che  dichiara il fallimento e giudice
della  impugnazione  (Cass.  19  settembre 2000, n. 12410), lasciando
cosi'  implicitamente  intendere  di  non  ritenere  estensibili alla
fattispecie fallimentare le argomentazioni con cui e' stata sostenuta
la  possibilita'  di  un'intepretazione  adeguatrice  in  materia  di
impugnazione ex art. 28 legge n. 300/1970.
    Inoltre,  va  osservato  che  le  motivazioni addotte dalla Corte
costituzionale nella pronuncia n. 387/1999 non sono utilizzabili tout
court   per   un'interpretazione   innovativa   della  norma  di  cui
all'art. 51,  comma  primo,  n. 4  c.p.c.  in  materia di giudizio di
opposizione  alla  sentenza  di fallimento. In particolare, in quella
sentenza  si attribuiva un significato interpretativo fondamentale al
dato  normativo rappresentato al fatto che nel sistema originario del
procedimento  di repressione della condotta antisindacale, in cui era
prevista  una  fase  davanti  al  pretore ed un'eventuale opposizione
avanti al tribunale, «non si poteva dubitare della sussistenza di una
duplicita'  di  fasi  processuali,  la  seconda delle quali avanti al
tribunale  assumeva tutte le caratteristiche di un ulteriore grado di
giudizio».  Tale  duplicita'  di fasi, a giudizio della Corte, non si
poteva  ritenere  come  venuta  meno  a  seguito  dell'intervento  di
modifica   di  cui  alla  legge  n. 847  del  1977,  la  quale  aveva
riconosciuto la competenza monocratica del giudice dell'opposizione.
    Ebbene,  tale  argomentazione,  fondata sul dato normativo appena
enunciato,  non  vuo'  essere  estesa  alla  fattispecie in esame, in
quanto la normativa fallimentare ha sempre previsto la competenza del
Tribunale,  in  composizione  collegiale,  per  la  dichiarazione  di
fallimento e per il giudizio di' opposizione.
    Inoltre,  ai fini della qualificazione dell'interpretazione della
norma  de  qua come diritto vivente, non puo' sottacersi l'importanza
del   grado   di   consenso   che  essa  ha  raccolto  nella  pratica
dell'applicazione  giudiziaria,  posto  che  nella  prevalenza  degli
uffici  non  eprevista  alcuna  incompatibilita'  tra  le funzioni di
giudice  facente parte del collegio che ha dichiarato il fallimento e
quelle  di  magistrato  componente  il  collegio  chiamato a decidere
sull'opposizione ex art. 18l.f.
    Per  tutte queste considerazioni, si ritiene che l'intepretazione
secondo  cui  il  giudice che abbia partecipato alla deliberazione di
una  sentenza  dichiarativa  di  fallimento  non  e' tenuto, ai sensi
dell'art. 51, comma primo, n. 4, c.p.c., ad astenersi dal partecipare
al  giudizio  di  opposizione avverso la stessa pronuncia si qualichi
quale  diritto  vivente,  con la conseguenza che la stessa norma deve
essere assunta nel giudizio costituzionale come un dato oggettivo che
la  Corte  puo'  condividere o no, ma che rappresenta in ogni caso la
premessa necessaria per valutare la costituzionalita' della legge".